| 19 agosto 2016, 07:23

Valerio Checchi: "Quando smetterò nessuno potrà dire che non avrò fatto il massimo per lo sci"

L'ex fondista di Subiaco ha parlato di tutto: dalla sua passione per il fondo alla vittoria in Coppa del Mondo, dalla squalifica per aver saltato tre controlli antidoping alla sua nuova vita da allenatore per il CLS

Foto dal profilo instagram di Checchi

Foto dal profilo instagram di Checchi

Ci sono atleti che nascono in località nelle quali con gli sci si va anche a scuola, ma c’è anche chi parte dalla provincia di Roma e arriva a vincere delle gare di Coppa del Mondo. Parliamo di Valerio Checchi, che partendo da Subiaco è riuscito anche a mettersi dietro chi il fondo ce l’ha nel sangue come i norvegesi. Un personaggio particolare, sempre solare e chiaro, che non ha problemi a parlare di nulla, nemmeno dell'esclusione in extremis dalla staffetta che ha vinto l’oro a Torino 2006 o della squalifica di un anno per aver saltato tre controlli antidoping che ha chiuso la sua carriera. Di tutto questo e del suo presente da allenatore nel comitato CLS abbiamo parlato in questa interessante intervista.

Buongiorno Valerio Checchi, la tua è una storia particolare perché non si vedono tutti i giorni fondisti provenienti dal Lazio.
«So che il Lazio sembra un po’ fuori luogo in questo ambiente rispetto al Nord Italia, ma sono nato a Subiaco e a Monte Livata fin dal dopoguerra c’è una grande tradizione nello sci di fondo. Mio papà poi è stato finanziere a Predazzo ed è diventato molto amico di Franco Nones, ha toccato con mano l’attività agonistica del Trentino ed è diventato allenatore di discesa e fondo, facendo crescere il livello agonistico nella nostra piccola città».  

Insomma al calcio hai così preferito lo sci.
«Subiaco è il paese del grande Ciccio Graziani, ma anche del Gruppo Sciare Subiaco, una delle migliori società italiane tra quelle civili, capace di ricevere la medaglia d’oro al merito sportivo».  

Come hai fatto a proseguire la tua carriera a livello agonistico? Ti sei presto allontanato da Subiaco?
«A distanza di anni mi rendo conto dei sacrifici che ho fatto da giovane, perché in quel momento mi sembrava tutto facile. Avevo ambizione e ho inseguito un sogno quando a 16 anni ogni fine settimana salivo su un treno per raggiungere i raduni nel Nord Italia. Con la vecchiaia ho iniziato a sentire la fatica di questa vita, i viaggi hanno iniziato a pesarmi, ma non ho mai voluto spostarmi da Subiaco, perché sono orgoglioso di vivere qui e d’estate avevo anche le strutture adeguate per la preparazione, mentre d’inverno ero costretto a sportarmi. La domenica dopo la coppa del mondo tornavo a casa mia, ma già il mercoledì dovevo spostarmi nuovamente. Credo che i mille sacrifici fatti da giovane però mi abbiano aiutato ad emergere, perché ho sentito tante responsabilità».  

Com’è stato l’impatto con la Coppa del Mondo?
«Sono una persona positiva e quindi l’ho vissuto molto bene, anche se alle prime uscite sono arrivato anche ottantesimo. In molti magari ci restano male, perché prima vinci tanto in ambito nazionale, fai bene in Coppa Europa e arrivi in Coppa del Mondo pensando di essere maturo, per poi scoprire che gli altri corrono il triplo. Ma io non mi sono abbattuto, anzi ho vissuto le sconfitte come una sfida, uno stimolo a migliorare. Già al mio secondo anno sono entrato qualche volta nei dieci, mentre altri atleti hanno visto passare molto tempo prima di qualificarsi a una gara di Coppa del Mondo. Ho vissuto tutte le gare della mia carriera con l’emozione della prima volta. Forse avrei potuto cogliere risultati migliori, ma ho un carattere un po’ particolare, che mi portava a volte quasi a disinteressarmi per un risultato negativo, quando avrei invece dovuto avere maggior cattiveria. Comunque non ho alcun rimpianto, mi tengo degli splendidi ricordi, come le centinaia di migliaia di persone nelle gare scandinave, con la folla a destra e a sinistra, l’adrenalina a mille».  

Sei entrato a far parte della staffetta azzurra e nel 2006 in Val di Fiemme hai vinto con i tuoi compagni l’ultima staffetta prima delle Olimpiadi di Torino; ti aspettavi di farne parte anche ai Giochi?
«Era l’ultimo test prima delle Olimpiadi e avevamo già fatto alcuni podi prima di quella vittoria. Io ero già felice quando salivo sul podio, perché venendo da una regione come il Lazio mi sembrava di compiere un’impresa, figuriamoci salire sul gradino più alto. In quella stagione ero stato sempre il miglior italiano nella tecnica classica e dopo quel successo ero convinto di far parte della staffetta di Torino. I tecnici mi preferirono Valbusa, nonostante io fossi più in forma. Non li biasimo perché avranno fatto le loro valutazioni e magari si saranno fidati di lui perché aveva più esperienza rispetto a me. Non posso dirgli nulla perché poi hanno vinto anche l’oro, quindi non sono criticabili. Ovviamente a volte ci penso, perché probabilmente quell’oro sarebbe arrivato lo stesso e avere una medaglia appesa sul muro di casa mi piacerebbe. Ma con i se e i ma non si va da nessuna parte. In quel momento comunque non mi sono arrabbiato, ho accettato la loro decisione e inoltre ero convinto che più in là avrei avuto la mia possibilità».  

Nel 2008 hai conquistato la tua prima e unica vittoria in Coppa del Mondo a Canmore, in Canada. Puoi descriverci le tue emozioni?
«È stata una cosa fantastica perché ero salito diverse volte sul podio nelle gare precedenti e il giorno prima avevo buttato la gara in linea a causa di una tattica sbagliata. Quel giorno però ero in grande forma e al termine della gara ero sul tetto del mondo. A volte un atleta vince perché manca il più forte, oppure perché a fine stagione alcuni hanno mollato, ma quel giorno c’erano tutti ed è stata una grande soddisfazione, che ho meritato perché ho rincorso tanto il successo. Quella vittoria mi ha ripagato dei tanti sacrifici fatti».  

Nel 2010 si sono disputate le Olimpiadi di Vancouver: pensavi di salire sul podio?
«Ero maturo, avevo vinto ed ero salito diverse volte sul podio, inoltre mi sentivo in forma, quindi avevo delle alte aspettative. Purtroppo le condizioni meteo furono particolari, si passava dal freddo al caldo nel giro di mezza giornata e anche la neve cambiava condizione spesso. Io sbagliai la prima gara, mentre nella staffetta i tecnici si affidarono agli atleti più anziani, quasi come premio. Io cambiai in buona posizione, ma alla fine ci staccammo. Resta una bella esperienza, perché anche se non ho preso medaglie, potrò sempre dire di aver presto parte a più edizioni dei Giochi Olimpici».  

Purtroppo la tua carriera si è chiusa male nel 2014, quando sei stato sospeso per aver saltato tre volte i controlli antidoping. Hai voglia di parlarne?
«Sicuramente. È stata una situazione molto stupida, gestita male sia da me sia da federazione e CONI. In tanti atleti hanno saltato quei controlli e poi sono stati riammessi, mentre io non ho fatto alcun ricorso, perché per presentarmi al TAS avrei speso 12mila franchi svizzeri e sinceramente, visto che tanto avevo deciso di ritirarmi, non mi andava di farlo, perché sapevo di avere la coscienza pulita e chi mi conosce lo sa, del resto non mi importa nulla».    

Puoi dirci come sono andate le cose? Come mai hai saltato quei tre controlli?
«La prima occasione ha coinciso con la nascita di mia figlia, mia moglie non ha partorito a Subiaco ma in un paese vicino. Sono partito la sera tardi per raggiungere mia moglie in ospedale, ho dormito nella casa del suo paese e forse per l’emozione dell’evento ho fatto l’errore di dimenticare di cambiare il whereabout e indicare dove mi trovavo. Non ero certo sparito, infatti quel giorno ho registrato la nascita di mia figlia. Nella seconda occasione ero a fare i campionati italiani, nei quali sono arrivato secondo. Al termine della gara mi sono sottoposto al controllo antidoping e ho segnalato che il giorno successivo sarei stato a Subiaco. All’ultimo momento mi è stato richiesto di restare un altro giorno per partecipare a un Memorial, mi sono fermato e ho dimenticato di segnalarlo. Quando mia moglie mi ha telefonato per comunicarmi che erano passati a casa per il controllo, sono andato dai medici che mi avevano fatto l’antidoping il giorno prima, chiedendogli di eseguire subito il test, ma mi hanno spiegato che per regolamento non potevano farlo. Infine la terza occasione, nella quale ho ancora meno colpe. Avevo segnalato che avrei dormito a casa e così ho fatto, ma la FISI mi ha prenotato il volo per la Finlandia, dove era in programma una gara, alle 6,50. Così sono uscito dalla mia casa di Subiaco in direzione Fiumicino, non certo dietro l’angolo, alle 4 del mattino. Proprio quel giorno si sono presentati mentre ero in aeroporto. Appena arrivato in Finlandia mi sono fatto subito controllare dalla FIS, ma secondo loro questo controllo non era valido, perché nel corso del volo avrei potuto assumere delle sostanze in grado di cancellare un’eventuale positività. Nel processo nemmeno ho chiamato un avvocato, sapevo di essere pulito e mi dispiace che in un mondo pieno di porcherie abbia pagato proprio io. Ho portato tutti questi documenti per dimostrare la mia innocenza e loro mi hanno condannato a un solo anno anziché due, perché sapevano che ero innocente, ma non c’era alcun articolo della legge che poteva comunque tutelarmi».  

Non ti dispiace aver chiuso così la carriera?
«Quando hai la coscienza pulita non ti importa nulla. Il mio unico rammarico è legato al fatto che avrei voluto chiudere la carriera con la 50 chilometri di Holmenkollen, ma non ho potuto. L’unica consolazione comunque è aver chiuso ventesimo e migliore degli italiani la mia ultima gara. Non me ne sono andato da ultimo della classe».  

Al termine della tua carriera agonistica hai iniziato ad allenare i giovani del CLS.
«È bello allenare e non ho pretese, lo faccio praticamente gratis, solo per passione. Sono anche disposto ad anticipare i soldi di un albergo se serve, ma devo dire che il Comitato mi supporta in tutto. È bellissimo, perché i ragazzi che siano forti o meno ti danno soddisfazioni. Sono arrivati anche degli ottimi risultati, con un ragazzo quarto ai nazionali e una ragazza decima. Mi fa piacere vedere tanto entusiasmo da parte dei genitori che vedono migliorare i propri figli. Non so se sono un allenatore bravo, ma so creare un clima positivo».  

Insomma speri di farlo ancora per molto tempo?
«Vorrei, anche se il mio corpo, la Forestale, verrà accorpato dai Carabinieri e non so se qualcosa cambierà quando questo accadrà. Ora la Forestale distacca gli allenatori per permettergli di aiutare la federazione, concedendogli due o tre giorni a settimana per i lavori con il Comitato. Non so se questo accadrà anche quando diventeremo carabinieri, mi auguro di si e spero che il CONI in qualche modo contribuisca a tutelarci, perché se questo sistema salta, lo sport italiano potrebbe avere qualche problema. Un privato al posto mio chiederebbe dei soldi al Comitato e questi non ci sono, mentre io non chiedo nulla in quanto stipendiato dalla Forestale. Per quanto mi riguarda ce la sto mettendo tutta per far conoscere la nostra attività, tanto che sono riuscito a far arrivare qui la RAI, far intervistare i nostri ragazzi e si è parlato di fondo al TG Regionale del Lazio. Quando smetterò nessuno potrà dire che non avrò fatto il massimo per lo sci».  

Un’ultima domanda: qual è la situazione degli impianti a Subiaco?
«Buona, perché da poco è arrivata una nuova società di privati con ottime intenzioni, tante belle idee, anche se hanno bisogno di un po’ d’esperienza in più. È una bella pista, omologata per gare internazionali e io sono a disposizione per dare consigli se vorranno. Loro puntano molto sui turisti e prediligono piste semplici, ma secondo me dovrebbero farne alcune più lunghe con salite e discese per consentirci di allenarci. Sia chiaro, se faccio una richiesta, sono sempre disponibili a battermi la pista in una certa maniera, però ecco mi auguro che in futuro si concentrino di più sulle necessità che abbiamo come Comitato e sci club. Sono molto fiducioso perché è gente in gamba e con ottime idee, che ci aiuterà a crescere ancora».

 

Giorgio Capodaglio

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