| 29 agosto 2016, 07:33

Fulvio Valbusa ricorda l'oro di Torino: "Siamo riusciti a fare la storia"

L'ex fondista, oggi commentatore per Eurosport, ha parlato a Fondoitalia della sua carriera ma anche dell'attuale nazionale italiana di fondo: "De Fabiani farà veramente grandi cose; i ricordi più belli sono legati alla Val di Fiemme, la mia seconda casa"

Fulvio Valbusa ricorda l'oro di Torino: "Siamo riusciti a fare la storia"

Per poco meno di quindici anni ha fatto parte della nazionale italiana di sci di fondo, partecipando alla Coppa del Mondo sempre da protagonista, vincendo cinque gare di Coppa del Mondo, 5 medaglie mondiali, un argento e un oro olimpico, la storica staffetta di Torino 2006, che ha rappresentato per lui il modo migliore di mettere fine alla sua carriera agonistica. Fulvio Valbusa è stato uno dei grandi del fondo italiano, l’ultimo fondista del nostro paese a imporsi nella mitica Marcialonga nel 2000 e oggi è commentatore su Eurosport delle gare della Coppa del Mondo di fondo. L’intervista è stata quindi l’occasione di non parlare soltanto della sua carriera, ma anche dello sci di fondo e degli atleti di oggi.

Buongiorno Fulvio Valbusa, partiamo dall’inizio: come mai ha cominciato a praticare lo sci di fondo?
«Qui a Bosco Chiesanuova c’è una tradizione di sci nordico radicata da tantissimi decenni. Io ho cominciato con lo sci alpino, ma quando andavo in settimana bianca con la scuola elementare, tutti i miei amici facevano fondo e così mi prendevano in giro perché non li seguivo. Per stare con loro ho quindi iniziato a praticare questo sport e presto ho ottenuto degli ottimi risultati, così quando si è trattato di fare una scelta tra lo studio e lo sport a livello agonistico, ho deciso di buttarmi a capofitto su questa avventura, consapevole di rischiare. Le cose sono però andate molto bene perché presto sono entrato nel Gruppo Sportivo della Forestale ed è iniziata la mia carriera».  

Nel 1992 ha esordito in Coppa del Mondo e pochi mesi dopo ha subito partecipato alle Olimpiadi di Albertville; come ha fatto a trovare un posto in una nazionale tanto competitiva?
«Sono riuscito a conquistarmi subito un posto in squadra grazie ad alcuni ottimi risultati ottenuti. Ai Giochi è anche andata bene perché sono arrivato diciassettesimo nella 30 chilometri. Sono stato fortunato perché mi sono trovato all’interno di un grande gruppo, nel quale c’erano atleti come Albarello e De Zolt che erano dei trascinatori, davano una mano ai noi giovani e si portavano sulle spalle tutta la nazionale. Devo tanto a questi due campioni. Albarello per me è stato un punto di riferimento, quando ci si allenava il mio obiettivo era sempre di batterlo, una sorta di sfida con lui, tanto che nessuno mollava mai e così venivano fuori degli allenamenti tosti. Oltre a lui dovrò ringraziare sempre per quanto ho fatto nella mia carriera Carlo Vito Scandola, che è stato il mio primo allenatore e mi ha sempre seguito, lui mi conosceva da sempre. Ringrazio inoltre anche gli altri tecnici della nazionale Vanoi e Chenetti».    

La sua stagione migliore è stata il 1996/97 nella quale ha chiuso al terzo posto nella classifica generale, pur non vincendo alcuna gara, segno di una continuità incredibile.
«In quel periodo c’era stato un cambio generazionale nella nostra nazionale e io ho capito che potevo fare una grande stagione sfruttando la mia polivalenza. Per me quella è stata una grandissima annata, perché non sono mai uscito dai dieci in Coppa del Mondo, nonostante fosse molto dura per tutti perché c’erano dei grandissimi avversari ed era difficile cimentarsi con certi personaggi, come Daehlie. Per me è stato fantastico giungere terzo in quella coppa».    

L’anno successivo ha vinto la sua prima gara individuale in Coppa del Mondo, proprio in Italia, nella Val di Fiemme. Ci può descrivere le emozioni che ha provato in quel momento?
«Se dovessi scegliere una seconda casa, sportivamente parlando sarebbe la Val di Fiemme, con la quale ho un legame incredibile, tanto che la frequento ancora e ho molti amici. Lì ho vinto il mio primo titolo italiano e la prima gara in coppa del mondo. Inoltre sempre in Val di Fiemme ho quasi vinto la 50 chilometri ai Mondiali, ma purtroppo ho avuto una crisi di fame che mi è costata la vittoria. A questa località ho legato ricordi bellissimi, ma anche quelli meno positivi mi hanno aiutato a crescere. Quando vado a fare il commento al Tour de Ski in Val di Fiemme vivo sempre delle emozioni particolari. Senza alcun dubbio salire sul podio di casa, vincendo davanti ad Alsgaard e Daehlie, è uno dei ricordi più belli che ho nella mia carriera».  

Nel corso della sua carriera ha incrociato dei grandi campioni come Smirnov, Daehlie e Alsgaard; com’era il suo rapporto con loro?
«Questi atleti hanno fatto la storia dello sci di fondo, ma nonostante questo erano comunque molto umani. Addirittura Smirnov e Daehlie ci invitavano a casa loro in primavera, si andava a pescare insieme e c’era un bellissimo rapporto fuori dalle piste, un’amicizia che andava oltre il lato sportivo. Se penso a Daehlie, posso vantarmi di avere avuto un rapporto di amicizia con uno dei più forti fondisti di tutti i tempi».  

Lei è anche l’ultimo italiano ad aver vinto la Marcialonga.
«Si posso fregiarmi di questa vittoria. L’ho vinta nel 2000 quando ancora si disputava a tecnica libera. Anche quel successo è un’altra esperienza legata alla Val di Fiemme. Oggi è ancora più difficile vincerla, perché ci sono molti specialisti delle lunghe distanze. È un orgoglio per me aver raggiunto questo successo, perché è la gara di gran fondo più sentita in Italia».  

È stato protagonista di un altro grande momento del fondo italiano, vincendo l’argento ai Mondiali di Oberstdorf del 2005 dietro a Pietro Piller Cottrer, una storica doppietta.
«È stata una doppietta mondiale splendida, perché abbiamo fatto la storia. Inoltre con Pietro ho sempre condiviso dei momenti forti, eravamo in camera insieme e il giorno prima della gara sapevamo di essere in ottima forma, così ci eravamo guardati e ridendo parlavamo di una possibile doppietta. È andata così! Pensate che ho rischiato anche la squalifica perché mi presentai sul podio con uno sponsor sul colletto e non era consentito, perché potevi avere soltanto uno sponsor sul cappellino di gara. Alla fine però non mi hanno squalificato, se fosse accaduto sarebbe stato assurdo perché non avevo infranto alcuna regola sportiva».  

È arrivato il momento di descriverci il fantastico oro vinto in staffetta alle Olimpiadi di Torino del 2006, poco prima del suo ritiro.
«Credo che sotto il punto di vista mediatico sia stata la vittoria più sentita, anche perché avevamo una sfida aperta con i norvegesi, che volevano restituirci lo “sgarbo” di Lillehammer. Quel giorno è andato tutto bene, si è creato qualcosa di particolare e noi sentivamo di avere nelle corde la possibilità di fare qualcosa di grande. Quella mattina, a colazione, ci siamo detti che dovevamo fare la storia. Ci siamo riusciti perché la volevamo tutti e inoltre avevamo una grande esperienza. Quello che è accaduto a Piazza Castello è stato qualcosa di eccezionale, c’era tanto entusiasmo e rumore da parte del pubblico. Portare in Piazza Castello a Torino una vittoria storica come quella è qualcosa che ti rimane dentro».  

Come mai dopo il ritiro dalla carriera agonistica non ha scelto quella di tecnico o in federazione?
«Ho provato ad allenare nello sci club di Bosco e passare dall’altra parte, ma non ci sono proprio riuscito dal punto di vista mentale, non riuscivo a insegnare. Per farlo bisogna avere delle caratteristiche che non ho. Invece ora mi sto trovando bene come commentatore, un lavoro che mi entusiasma».  

A proposito, dal momento che lei commenta la Coppa del Mondo di fondo per Eurosport, può dirci cosa pensa delle due nazionali italiane?
«In campo maschile mi aspetto tanto da Pellegrino, che ha lavorato molto anche per crescere sulle lunghe distanze ed essere utile alla staffetta. Poi abbiamo De Fabiani che è giovanissimo e ha grandissime potenzialità. Sono convinto che vedremo qualcosa di ottimo da parte sua, ha ancora ampi margini di crescita e farà veramente grandi cose. In campo femminile la situazione è più critica, perché ancora non è stato assorbito il cambio generazionale che c’è stato. Abbiamo un livello medio, perché non ci sono atlete già forti che possono trascinare le altre. Siamo un po’ in difficoltà».  

Un’ultima cosa: com’era gareggiare insieme a sua sorella?
«Era come trovarsi sempre a casa, perché avevo una presenza familiare con me che mi poteva supportare, aiutare e con cui potevo condividere alcuni momenti che i miei compagni di squadra non potevano capire. Io sono più grande di lei e in pratica l’ho messa sugli sci, gli ho fatto da chioccia e abbiamo fatto la carriera insieme, una cosa che non accade tutti i giorni».    

 

Giorgio Capodaglio

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