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Sci di fondo

Gabriella Paruzzi: “Non ero una fuoriclasse, ma ho vinto grazie al lavoro”

Negli anni ’90 Gabriella Paruzzi era considerata la terza moschettiera dello sci di fondo femminile italiano, la fondista che dietro a Stefania Belmondo e Manuela Di Centa riusciva a ottenere dei buoni piazzamenti e a completare una staffetta che negli appuntamenti importanti saliva sempre sul podio. La terza moschettiera però non si è accontentata e con tanto duro lavoro è diventata dopo alcuni anni la grande protagonista del fondo italiano, vincendo un oro olimpico e addirittura la Coppa del Mondo, traguardi che mai avrebbe immaginato di raggiungere. La sua è la storia di chi, con tanto allenamento, ha raggiunto il livello delle fuoriclasse, fino a batterle e salire in cima al mondo. Gabriella Paruzzi si è raccontata in questa lunga intervista.  
Buongiorno Gabriella, partiamo dagli inizi: come mai ha praticato lo sci di fondo?
«In maniera casuale, perché in realtà da bambina iniziai a fare salto con gli sci, perché mio fratello praticava questo sport e la combinata nordica. Spesso facevo l’apripista di salto, perché a livello femminile questa disciplina ancora non esisteva. Mi vide però un tecnico del mio paese e mi spinse a fare fondo. Feci gare a livello agonistico per i Giochi della Gioventù quando ero alle elementari e andai avanti, perché il tecnico del paese, Rinaldo Rigoni, ci veniva addirittura a prendere a casa pur di farci allenare. La mia è una storia particolare, perché a differenza di tanti altri atleti non vengo da una famiglia di sportivi e forse è stato meglio così».                        
È andata avanti, raggiungendo la nazionale italiana di Coppa del Mondo, dove ha trovato due atlete fortissime come Stefania Belmondo e Manuela Di Centa.
«Queste due campionesse mi hanno insegnato tantissimo e rappresentavano uno stimolo per noi atlete che eravamo in squadra con loro. In quel periodo non avrei mai pensato di raggiungere i risultati che ho poi ottenuto. La loro rivalità? Fu importante la grande intelligenza dell’allora dt Camillo Onesti, il quale fece si che noi atlete non subissimo pressioni da giornalisti e tecnici. Quello che si è letto, scritto e parlato, riguardo la loro rivalità, è stato molto enfatizzato. Da fuori molti immaginavano che la rivalità fosse molto più grande rispetto a quanto si vivesse all’interno. Entrambe sono state due grandissime campionesse, da entrambe ho raccolto quello che mi interessava. Erano un esempio perché si allenavano con grande dedizione. Le vedevo lavorare e non potevo fare a meno di allenarmi di più. All’interno della squadra però la loro rivalità non ha mai portato particolari pressioni e ho l’impressione che siano arrivate in alto anche per questa loro sfida, perché se una delle due vinceva il sabato, l’altra doveva per forza farlo la domenica. Ovviamente all’interno della squadra loro venivano prima rispetto a noi altre, ma non ci è mai mancato nulla e la loro presenza ha aiutato tutta la squadra, perché portavano media e sponsor. Ne ha giovato tutto l’ambiente».  
Con loro ha anche vinto molte medaglie in staffetta.
«Si, perché ho sempre fatto parte della staffetta, dal 1991 al 2006 non sono mai uscita dal gruppo delle quattro staffettiste. Eravamo una squadra fortissima e potevamo solo vincere medaglie. Non mi sono mai allenata in modo leggero, ma l’ho fatto sempre con determinazione e puntualità, curando ogni minimo aspetto, proprio in vista della staffetta, perché sapevo che la medaglia era assicurata. Sono riuscita a non far mai mettere in discussione la mia presenza».  
D’improvviso, superati i trent’anni, ha fatto il salto di qualità vincendo l’oro olimpico della 30 km, le prime gare individuali e addirittura la Coppa del Mondo del 2004. Cos’è cambiato in lei?
«Ho sempre lavorato molto e con la maturazione ho preso consapevolezza che potevo riuscire a raggiungere degli ottimi risultati. Le vittorie nello sport non si costruiscono soltanto con l’allenamento, ma anche la parte psicologica è fondamentale. Se un’atleta fa uno scatto in avanti e capisce di avere i mezzi per vincere, allora affronta la gara in maniera diversa. A 31 anni ho ottenuto il mio primo podio in carriera, mentre in precedenza, al di fuori della staffetta, avevo raccolto soltanto piazzamenti nei dieci. Nell’anno preolimpico, poi, conquistai il mio primo podio in assoluto, proprio nella pista che avrebbe ospitato le Olimpiadi l’anno successivo, e davanti a Stefania Belmondo. Questo mi fece capire che c’ero fisicamente, che potevo giocarmela. L’averla battuta mi gasò e mi permise di scendere in pista senza timori reverenziali perché non ebbi più l’ansia da prestazione. Lo sport è così, se pensi di poter puntare in alto, parti con un altro spirito».  
L’anno successivo arrivò il fantastico oro olimpico di Salt Lake City nella 30 chilometri, in quella che fu una gara molto particolare, che vide la squalifica della Lazutina, la cui positività era già nota a molti prima della gara.
«Noi che eravamo in gara non sapevamo nulla, eravamo solo a conoscenza del fatto che non aveva partecipato alla staffetta (perché trovata con ematocrito alto ndr). Quel giorno fui l’ultima a partire e così avevo in tempo reale i dati di tutte le altre atlete. Ricordo che fin dall’inizio mi davano sempre seconda ed essendo una gara di 30 chilometri pensavo che avrei potuto perdere posizioni, perché in questa gara devi gestirti fisicamente e inoltre anche i materiali devono tenere fino alla fine. Ricordo che a tre chilometri dall’arrivo non ce la facevo più, ero stanchissima, vedevo nero e pensavo quasi di non arrivare. Presi coraggio, però, pensando che seconda o terza sarebbe stato lo stesso, l’importante era arrivare sul podio. Per me anche un bronzo sarebbe stato bellissimo, avrebbe rappresentato la prima medaglia individuale. All’arrivo ero felicissima e nella cerimonia della consegna dei fiori c’era anche la Lazutina, che alla sua età aveva vinto con ampio vantaggio. Qualche dubbio nei suoi confronti c’era, perché il suo risultato era eccessivo. La notizia della vittoria mi fu comunicata per telefono, mi dissero che alla Domenica Sportiva avevano annunciato la sua squalifica».  
Così ha avuto l’occasione di godersi la festa sul podio.
«Si, per fortuna ho potuto ricevere la medaglia d’oro già quella sera nella cerimonia ufficiale e ascoltare l’inno nazionale. Se me l’avessero consegnata a casa qualche mese dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. In quel momento vissi al meglio tutta la serata, la cosa più bella fu ascoltare l’inno, perché lo sognavo da una vita. Non mi resi nemmeno conto di quanto avevo fatto, ero così stordita da non capire, ero commossa e felice, ma soltanto molto tempo dopo realizzai cosa avevo fatto. Stefania? Lei era felicissima per me, perché stavamo festeggiando due medaglie. Anche i nostri skiman erano al settimo cielo, perché fu la vittoria di un gruppo che lavorava bene da anni. Era l’ultima gara dei Giochi e in molti erano già partiti lasciando gli USA e invece fu forse il momento più bello delle Olimpiadi per l’Italia».  
Due anni dopo la vittoria olimpica, è riuscita addirittura a vincere la classifica generale della Coppa del Mondo. Se glielo avessero detto pochi anni prima, ci avrebbe mai creduto?
«Assolutamente no, non l’avrei mai pensato nemmeno dopo aver vinto l’oro olimpico. Per me è stata la più grande soddisfazione della carriera, maggiore rispetto alla vittoria dell’Olimpiade, perché quest’ultima rappresenta il successo di un giorno, mentre la Coppa del Mondo te la costruisci lentamente dall’inizio alla fine, me la sono sudata. Tutte le gare erano equilibrate, non vincevo mai con un margine enorme e la Bjorgen vinceva praticamente tutti gli sprint. Le finali si disputavano a Pragelato, in Italia, e speravo di arrivarci con molto margine per stare serena e invece dovetti lottare fino all’ultimo giorno. Fu una grande festa, una gratificazione».  
Due anni dopo arrivò anche il bronzo olimpico nella staffetta.
«Cambiammo quartetto e vincemmo lo stesso una medaglia. Io faticai molto tra il 2004 e il 2006, perché la stagione in cui vinsi la coppa mi aveva logorata e inoltre inevitabilmente non mi allenai come in passato, perché mi gustai ogni cosa derivata dalla mia vittoria, comprese le feste e le chiamate degli sponsor. In passato mi ero sempre allenata al massimo, senza mai sgarrare, perché non mi ritenevo una fuoriclasse e tutto ciò che ho ottenuto è stato costruito attraverso il lavoro. Ad andare avanti mi spinse il fatto che volevo disputare le Olimpiadi di casa e fortunatamente ho tenuto fino a partecipare, perché quel bronzo in Italia fu fantastico».  
Oggi lei è consigliere federale della FISI e capo della commissione femminile della FIS. Come giudica il momento dello sci di fondo italiano?
«Attualmente sta bene, perché è in ripresa, dopo che c’è stato un piccolo calo dovuto a tanti diversi fattori. Non si può sempre crescere. Grazie alle vittorie di De Fabiani e Pellegrino, l’Italia ha ritrovato la voglia di seguire lo sci di fondo. Questo è un piacere per chi ha vissuto e vive questo sport come me. Siamo tornati ai tempi di Zorzi e Valbusa, che insieme agli altri avevano molto fascino nei ragazzi. Pellegrino è lo stesso sia per i risultati che ottiene sia per il suo carisma, fa bene al nostro movimento, che ha bisogno di personaggi che appassionino i giovani, ai quali oggi è difficile proporre gli sport di fatica».  
Un’ultima domanda: ha mantenuto delle amicizie all’interno della sua ex squadra?
«Si, per esempio con Sabina Valbusa mi sento quasi tutti i giorni, perché ho condiviso la camera con lei per tutta la mia carriera ed è tra le persone che più sento. Sono rimasta molto legata anche alla fisioterapista Norma Tipaldi, che sento molto spesso, come tanti tecnici. Queste persone rappresentano la mia seconda famiglia, con cui ho condiviso gioie e dolori».

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