Sci di fondo | 26 settembre 2020, 12:30

Con un passato da perfetta fondista ed un futuro prossimo in corsia, la "winner in life" Astrid Jacobsen ora viaggia veloce verso nuovi orizzonti.

A sei mesi dall’annuncio del ritiro dall’attività agonistica, Fondoitalia.it ha incontrato in esclusiva la futura dottoressa Astrid Jacobsen che ci ha raccontato della sua filosofia da vera maestra dello sci di fondo, della sua visione sul calendario delle gare ed il suo futuro nel campo medico.

Romaniemi OY

Romaniemi OY

Eravamo tutti abituati a vederla gareggiare con gli sci stretti ai piedi da oramai una quindicina d’anni, da quel 22 Febbraio 2007 quando alla giovane età di venti anni, nella sprint in classico dei Mondiali di Sapporo stupì il mondo dello sci di fondo conquistando la sua prima medaglia d’oro a livello senior. In terra giapponese Astrid Jacobsen incominciò ad esibire al mondo intero la sua perfetta e armoniosa tecnica in alternato che l'ha sempre accompagnata nel corso della sua gloriosa carriera nelle principali località del fondo mondiale fino all’ultima sfortunata recita, per via di materiali non all’altezza della fama dello staff norvegese, avvenuta lo scorso Marzo nella sua Holmenkollen nella 30km in classico che ha chiuso anticipatamente la stagione 2020.

Col ritiro dall'attività agonistica annunciato lo scorso Aprile, la stessa eleganza e maestria, Astrid la potrà ora mostrare nelle corsie d'ospedale della sua amata Oslo indossando il camice bianco con la classe innata e con il suo stile mai fuori dalle righe con la quale si è sempre esibita fin dalle categorie youth e junior nel fondo.

Con gli ultimi esami in medicina che svolgerà verso la metà del prossimo anno, la norvegese si trasformerà da Astrid, la perfetta esteta del fondo, alla dottoressa Jacobsen, mantenendo però quella signorilità e professionalità che l’hanno sempre contraddistinta in ogni occasione, dentro e fuori i tracciati innevati.

Al di fuori dello sci di fondo, Astrid si è sempre dimostrata una ragazza in possesso di una cultura e di una sensibilità molto al di sopra della media guadagnandosi numerosi apprezzamenti da parte delle sue colleghe e di numerosi addetti ai lavori. Nel suo nuovo ambito lavorativo, siamo certi che anche con stetoscopio e saturimetro in mano al posto degli sci e dei bastoncini, la futura Doc Jacobsen saprà destreggiarsi perfettamente fra le corsie d’ospedale visitando i suoi futuri pazienti con la stessa abilità con la quale ha conquistato medaglie e vittorie a livello internazionale nello sci di fondo.

Con questa gradevole conversazione avvenuta ad Oslo, vogliamo adeguatamente celebrare e consegnare un omaggio conclusivo ad un’atleta che forse avrebbe potuto anche vincere più di ciò che ha raccolto durante la sua lunga carriera, ma che l’incidente in Mountain bike nell’estate 2009 e il tragico episodio accaduto al fratello durante le Olimpiadi del 2014 le hanno sicuramente sottratto. Quattro anni dopo, nei Giochi Olimpici coreani, la giustizia le ha voluto risarcire in parte ciò che la cattiva sorte avuta in passato le aveva strappato, con la meritata medaglia d’oro conquistata con la staffetta norvegese.

Nelle sette edizioni dei Mondiali cui ha preso parte, Astrid può vantare un bottino di dieci medaglie, di cui tre ori, a cui aggiunge altri tre ori e cinque medaglie in totale a livello junior. Mentre in Coppa del Mondo ha totalizzato sei vittorie e quarantatre podi.

Non poco se si considera che Jacobsen ha gareggiato in un era fondistica nella quale la concorrenza esterna (Kowalczyk, Kalla, Kuitunen) ma soprattutto interna è stata di così alto valore se solo si ricordano i nomi delle sue compagne di squadra: Bjørgen, Johaug, Weng, Østberg.

Astrid Urhenholdt Jacobsen ci raggiunge, ancora in perfetta forma e con la sempre sua proverbiale serenità, in compagnia del suo fidato cagnolino in un pomeriggio ancora ben soleggiato proprio dove sei mesi or sono aveva agonisticamente terminato la propria carriera: la linea d’arrivo nel tempio del fondo mondiale di Holmenkollen. Le chiediamo il nome del suo simpatico amico e lei divertita ci risponde: ”Lui si chiama Dovre, come la catena montuosa norvegese. E’ molto mansueto per essere un cane da caccia ma ultimamente sta cacciando solo le api, piuttosto che piccole prede.”

Essendo la sala stampa di Holmenkollen temporaneamente chiusa, Astrid ci suggerisce di spostarci proprio ai piedi del Royal Box dello stadio del fondo per avviare la nostra conversazione ed intervista. D’altronde una atleta come lei che ha fatto dello stile da perfetta maestra dello sci di fondo, anche una filosofia di vita, la scelta di questa nobile location non poteva essere migliore.

Una tribuna riservata alla nobiltà per una nobile sciatrice come Astrid Jacobsen.

Il mondo intero ha scoperto una giovane Astrid Jacobsen durante i Campionati del Mondo di Sapporo nel 2007. Ma ha ricordi speciali o particolari prima di quella sprint che le è valsa la prima medaglia d’oro. Nelle gare junior o durante gli anni scolastici?

«Nel nostro ski club IL Heming, avevamo molti sciatori forti quando ero in età junior e ricordo con piacere i Nazionali Norvegesi Junior nell’inverno 2004. In quella sprint tutto il podio è stato occupato dagli atleti del nostro sci club. Ricordo molto bene quella gara perché tutto il mio gruppo di allenamento proveniva da questa piccola area di Oslo ed è stato davvero strano battere tutte le altre ragazze provenienti da tutto il resto del territorio norvegese. Ed ai Nazionali qui in Norvegia, vi sono sempre molti sciatori, a volte anche trecento o quattrocento per categoria. Ma ricordo anche la mia prima volta da senior ai Nazionali Norge nel gennaio 2005 a Lillehammer, dove arrivai seconda dietro a Marit Bjørgen. Quella Sprint in classico è stata la mia prima gara Fis e nella qualificazione sono partita per ultima perché la mia classifica Fis era pessima ma sono riuscita a finire in terza posizione. Poi nella finale solo Marit è riuscita a battermi. Quella gara è stata l'ultima prova valida come selezione per i Mondiali di Oberstdorf 2005, ma a quel tempo la Federazione Norvegese mi disse che ero solo una ragazzina e troppo giovane per competere a livello internazionale tra le senior. E la stessa cosa è successa l'anno dopo quando sono arrivata terza ai Nazionali, ma ancora una volta mi fu detto che ero troppo giovane per ottenere un posto alle Olimpiadi di Torino. Con quella generazione di allenatori dovevi essere in età senior per competere in competizioni internazionali, ma poi le cose sono cambiate con Therese Johaug, Marthe Kristoffersen e Ingvild Østberg o guardando ora al nostro periodo con Helene Marie Fossesholm.»

Durante la sua carriera ha vinto molte medaglie durante i Mondiali, ben dieci, ma soltanto una alle Olimpiadi. Ci sono state ragioni particolari?

«Riguardo alle mie prime Olimpiadi a Vancouver, ho avuto un drammatico incidente in mountain bike l'estate precedente. Qualcuno disse che non avrei più sciato ad alti livelli, ma poi riuscire a conquistare la selezione interna per Vancouver è stata una delle migliori prestazioni della mia carriera, perché il 1° luglio ho dovuto indossare un bustino rigido che ho tenuto fino alla fine di agosto a causa delle tante fratture riportate. Riuscire a sciare di nuovo quell'inverno è stata una vittoria. Ancora adesso non riesco ancora a realizzare bene come ho potuto essere stata in grado di sciare bene come ho fatto quell’inverno. Ovviamente penso che senza l'incidente le cose probabilmente sarebbero state diverse. A Sochi è stata una somma di molteplici eventi negativi iniziati con il ​tragico fatto accaduto a mio fratello. Poi, quando l'allenatore ha scelto la squadra per lo skiathlon, io non venni selezionata e questo per me è stato davvero strano perché sono stata davvero costantemente molto forte per tutta la stagione in quel format. Penso che con l'allenatore di quel tempo non fossimo migliori amici. Quando ho corso la sprint è stato davvero emozionante per me, ma in finale ho rotto il bastoncino e sono arrivata quarta. Nella 10 km classica e in staffetta abbiamo avuto degli sci davvero pessimi. Ma a Sochi ero davvero in ottima forma prima di iniziare quei giochi. Devo dire che Sochi 2014, i Mondiali di Falun 2015 e Lahti 2017 sono stati gli eventi in cui ho avuto la forma migliore. Quando ho lasciato Sochi ero consapevole di essere la miglior atleta a non aver conquistato medaglie. Non devo avere un buon feeling con le Olimpiadi perché la stessa sfortuna si è ripetuta a Pyongchang quando ho avuto l'influenza poco prima di iniziare. Poi ho vinto l'oro in staffetta ma quella non è stata la mia giornata migliore, forse con quel successo la sfortuna ha voluto ripagarmi un pò per tutti gli eventi negativi avuti in passato.»

E’ riconosciuto da molti tecnici e analisti che lei abbia il miglior stile classico degli ultimi tre o quattro decenni. Ha lavorato molto per ottenere quel gesto armonico e così poetico come parte integrante della sua tecnica?

«Sì, ho lavorato molto con la mia tecnica e per me lo sci in classico è come una danza. Adoro la sensazione che si prova avanzando col passo alternato, perché ora nel fondo moderno tutti sciano come fossero delle macchinette tutte uguali, e non mi piace molto, ok forse è veloce così. Se riuscissimo a tornare ad avere i tracciati com'erano in passato con il dislivello che cambia continuamente invece di quelli che abbiamo adesso in cui praticamente tutti i tracciati sono pressochè identici nei quali vi è una salita, un tratto pianeggiante poi seguito da una discesa. Abbiamo bisogno di piste in cui sia possibile seguire il ritmo. Tu dovresti quasi galleggiare sulla neve sentendo i continui cambiamenti del terreno sotto i tuoi sci. Questa è la cosa che preferisco nello sci, quando tu scivoli sulla neve galleggiando ed è per questo che ho impiegato così tanto tempo a cercare di migliorare la mia tecnica per raggiungere la perfezione tecnica. Quando ottieni questa parte del galleggiamento, è un pò come se tu ottieni anche la velocità con te. Penso di essere sempre stata concentrata su quella parte dello sport che considera il miglioramento, il lavoro sulla tecnica e il fare le cose più e più volte per ottenere questa sensazione di padroneggiare compiutamente la tecnica di sciata. Raggiungere la perfezione tecnica probabilmente è stata più importante per me che vincere una gara. Questo è il motivo per cui alcune persone hanno detto di me che OK tu scii magnificamente ma poi non hai vinto abbastanza con la tecnica che ti ritrovavi. Ma io credo in questa parte dello sport nel quale tu devi essere anche maestro di tecnica»

Qual'è stata la sua migliore gara in carriera? O la gara che le ha dato più soddisfazione lasciandola affermare: "Quella era la mia giornata!"

«Ho due gare, entrambe disputate a Falun, che ricordo molto bene. La prima è stata nel 2008 ed era uno skiathlon che storicamente è stata la mia gara meno preferita ma quel giorno avrei potuto sciare anche per tutta la giornata. Eravamo tutte noi norvegesi nelle prime posizioni prima dell'ultimo giro poi sul Mördanbacken siamo rimaste solo io e Marit Bjørgen e ricordo che uno dei miei allenatori mi ha detto:"Astrid puoi calmarti ora, domani hai un'altra gara!" ma io l'ho guardato in modo strano non capendo il motivo di ciò che mi diceva. Vinsi quella gara staccando Marit nel finale e il giorno dopo vincemmo anche in staffetta. Quello skiathlon è stato uno dei miei giorni migliori di sempre in cui mi sono sentita in forma perfetta. Ma forse la gara che significa di più per me personalmente è un altro skiathlon a Falun durante i Campionati del Mondo 2015. Perché dopo le Olimpiadi a Sochi e dopo quello che era successo a mio fratello, ho voluto dedicare interamente tutti i miei pensieri all'allenamento durante l'estate perché quello era l'unico modo per farmi sentire un pò meglio. Ma tutto quel lavoro ha fatto sì che il mio corpo non rispondesse più. Così ho dovuto fermarmi da agosto fino a Natale e tutti i componenti della nostra squadra hanno pensato :"Ok, Astrid è fuori dalla squadra, non tornerà in questa stagione". Ma poi all'improvviso ho ricominciato a sciare e in un mese sono passata dall'essere un totale disastro e una fondista con la quale gli altri non contavano per ottenere un posto nella dura lotta che è sempre presente nelle selezioni norvegesi per i Campionati del Mondo, all’essere un’atleta da podio mondiale. La prima gara a Falun è stata lo skiathlon e ottenere una medaglia d'argento è stata una grande vittoria per me, ripensando al difficile anno precedente. Quello è stato un anno nel quale ho imparato molto personalmente, lo sci di fondo non era più solo uno sport, era di più.»

Aveva qualche rituale particolare il giorno della gara?

«Non proprio. L'unico rituale che ho avuto, se possiamo chiamarlo tale, riguarda il cibo che potevo mangiare o meno il giorno prima o se facevo un piccolo allenamento la mattina se la gara era di pomeriggio. Penso che uno dei miei punti di forza sia sempre stato il fatto che sapevo cosa era importante e cosa no, e i rituali non lo erano perché sono solamente rituali. Quindi, se per caso accadeva qualcosa di imprevisto prima della gara, per me era l’ideale perché gli altri fondisti di solito si stressavano molto a causa di ciò, ma per me andava bene. Per esempio se modificavano il format da classico a skating la sera prima della gara io rimanevo comunque molto tranquilla. Il rimanere sempre molto calma prima di una competizione era la mia migliore qualità. Quindi per me più stress vi era e meglio era per me.»

Cosa le manca di più dello sci di fondo in questo momento?

«Mi mancano le ragazze, le mie compagne di squadra, gli allenatori e tutti coloro che lavorano nel cross-country. Mi manca la flessibilità del programma giornaliero che avevamo che è diverso dal lavoro o dallo studio. E mi manca la mia forma migliore che ora non è così buona (risata). Ora mi alleno quando ho la motivazione. Mentre non mi mancano i lunghi training camp all’estero, le due intense sessioni di allenamento giornaliere o il seguire il rigido regime alimentare che un fondista deve rispettare.»

Come si definisce come ragazza al di fuori dello sci di fondo? E che tipo di carattere si riconosce?

«Mi piacciono le persone in generale, e come qualità migliore penso di essere abbastanza brava a prendere da esse prospettive diverse. Non ho sempre la mia prospettiva, vedo che ci sono due, tre, quattro modi diversi di vedere le cose che rendono più facile capire le altre persone e le loro prospettive, l'altra mia qualità che ho usato anche nel cross-country è la calma. Penso di vedere di solito il meglio nelle persone, sono piuttosto naive in questo e penso che le persone abbiano buone intenzioni fino a quando non si dimostrano a me in modo diverso. Sono un pò impaziente ma efficiente, quindi mi aspetto che lo siano anche le altre persone verso di me e mi aspetto che gli altri facciano del loro meglio, il che probabilmente talvolta può essere fastidioso per chi sta attorno a me. Sicuramente io penso sempre il meglio dalle persone, ma mi aspetto molto anche da loro.»

Da sei anni sta studiando medicina: quali saranno le sue prospettive future in questo campo?

«Mi resta un anno di studi e poi sarò un medico. Poi farò un internship stage che è di un anno e mezzo che è una posizione lavorativa che viene assegnata ai giovani medici e poi inizierò la specializzazione. Al momento non sono ancora sicura in quale direzione andrò ma quest'estate sto lavorando in una clinica femminile nel ramo ginecologico che si occupa delle varie fasi della gravidanza, dalla nascita al post parto, il che è davvero interessante. Non sono così sicura che tipo di specializzazione voglio scegliere, l'unica cosa che so è che voglio scegliere una direzione nella quale vi è la possibilità di imparare fino in fondo qualcosa che abbia un ampio sbocco nella carriera lavorativa. Voglio una specializzazione che però non inizi con qualcosa di generico ma poi ti limita in qualcosa di piccolo come ad esempio ortopedia. Non è il mio genere. Voglio essere un medico completo, quindi forse una ginecologa, forse in medicina intensiva o trauma, forse un medico generico di base. In Norvegia abbiamo un ottimo sistema sanitario, non vedo l'ora di poter lavorare ed essere parte attiva del nostro sistema. Mi piace molto il fatto che noi abbiamo questa piattaforma sociale che riserva lo stesso trattamento per tutti. Non importa se tu sei ricco o povero. Applichiamo lo stesso sistema sanitario per tutti.»

Perché è così difficile nel mondo degli sport invernali combinare con successo sport e università allo stesso tempo? Solo pochi atleti riescono a svolgere con successo entrambe le cose negli ultimi anni?

«Per quanto riguarda il mio caso personale non sarei stato medico se solo il Team nazionale norvegese o la mia università non fossero stati un po' flessibili, con orari che si adattavano a svolgere l’una o l’altra attività. Ho avuto alcuni anni in cui avevo programmi davvero molto rigidi. Se tu sei in Nazionale devi fare questo ritiro, questa gara, questo allenamento ecc. E lo stesso se sei uno studente di medicina devi fare questo esame, questo corso, questo test ecc., e tutti in questo dato giorno, ora e posto. Ed entrambi mi dicevano: “ci piace se pratichi sia sport che medicina, è davvero una buona cosa!". Ma io gli dicevo sempre che non importa se a te piace che faccia queste due attività in contemporanea se poi non mi aiuti. Non ho mai chiesto all'università o alla nazionale di saltare le cose, avevo solo bisogno di spostare il mio programma in avanti nel tempo perché non era così facile fare entrambe le cose o trovarsi in due posti contemporaneamente. Questo è uno dei miei obiettivi per il futuro, fare in modo che i politici e chi decide queste cose ti rendano più facile questa combinazione di attività. Poiché gli sportivi migliori possono poi essere perdenti nella vita una volta finita la carriera. Tu puoi essere eccellente nello sport ma quando finisci con esso, non hai più idea di cosa vuoi fare in futuro, ecco perché alcune persone diventano poi perdenti nella vita. Nella società è meglio creare vincitori nella vita permettendo loro di combinare sport e scuola o lavoro sostenendoli nel dopo carriera sportiva. Sarebbe molto meglio per l'intera società. In considerazione di ciò, questa è una delle pochissime cose buone generate da questa pandemia, che costringe l'Università a utilizzare maggiormente le varie piattaforme digitali, con le quali è possibile essere anche in luoghi diversi ma allo stesso tempo con ampie possibilità di imparare e seguire corsi online.»

Immaginiamo che lei fosse a capo del board dello sci di fondo. Cosa cambierebbe? Costruisca il suo calendario ideale con regole precise da seguire. Cosa farebbe per riportare il fondo ai suoi antichi giorni di gloria?

«Per prima cosa taglierei il numero delle gare di Coppa del Mondo. E smetterei di essere politicamente corretto e di dare tappe a questa o a quella località. Ad esempio, ora la Slovenia ha bisogno di ospitare alcune gare, così come altre nazioni hanno bisogno di ospitare gare di Coppa del Mondo. Ogni inverno qui ad Holmenkollen non ci è possibile allenarci perché la Fis richiede per la tappa di Coppa del Mondo che si accumuli costantemente neve artificiale sul tracciato. La FIS ci chiede un minimo di dodici metri di larghezza e 30 cm di spessore lungo praticamente tutta la pista per poter fare le gare a Marzo, ma poi andiamo in altri posti e troviamo pietre o erba e nessuna consistenza nella neve, permettendo in luoghi diversi regole diverse. Per quanto riguarda il calendario io inizierei col fare meno fine settimana di gare, iniziando le tappe il venerdì sera con una Sprint in prima serata quando le persone hanno terminato il lavoro e si mettono davanti al teleschermo o possono raggiungere la località di gara. E poi gare distance sabato e domenica, fare tre weekend consecutivi e poi una pausa. Altre cose importanti sono l'utilizzo di location tradizionali e di qualità, non sempre le stesse ma che abbiano qualcosa di importante da offrire. E se fallisci una volta offrendo un brutto spettacolo sei fuori dalla Coppa del Mondo!»

Intende dire mutuando a grandi linee il programma IBU?

«Sì per quanto riguarda il gareggiare per tre weekend e poi fare pausa, ma con il sistema di gareggiare solo nel fine settimana. Non mi piace il fare competizioni il mercoledì o il giovedì. Il calendario della Coppa del Mondo richiede meno fine settimana e meno viaggi. Quando Bente Skari vinse la sua ultima Coppa del Mondo nel 2003, vinse 14 gare sulle 17 gare individuali a cui prese parte nel programma di Coppa del Mondo. In calendario vi erano in totale ventuno gare di Coppa del Mondo, era il 2003, meno di vent'anni fa e ora sono diventate tantissime»

Un recente sondaggio ha rivelato una certa perdita nella pratica dello sci di fondo fra le nuove generazioni in Norvegia a favore di altri sport. Qual è il suo pensiero al riguardo e il suo suggerimento alla Federazione Norvegese per limitare questa perdita di entusiasmo nei ragazzi al di sotto dei quattordici anni?

«Probabilmente è perché di recente abbiamo avuto inverni con meno neve nel sud della Norvegia. Questa potrebbe essere una risposta semplice da dare. Gli inverni con buona quantità di neve in tutto il territorio e le belle piste possono attrarre i più giovani nel fare cross-country e divertirsi. Ma in Norvegia nelle gare interne nelle categorie junior fino agli under 20 ci sono sempre più sciatori. La perdita della pratica negli under 14 potrebbe essere temporanea. Ovviamente un altro motivo è dovuto al costo dei materiali. Essere attivi nelle gare giovanili richiede già troppa costosa attrezzatura troppo presto. Questo costo elevato causa sicuramente una perdita nel reclutamento fra i bambini.»

Cosa vi è ora nella sua futura lista dei desideri?

«Buona domanda! Forse avere dei figli, (risata) sarebbe il più ovvio desiderio. Non mi serve troppo. Mi piacerebbe avere un lavoro che io trovo sia interessante e stimolante e rimanere in buona salute."

Paolo Romanò

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