| 17 marzo 2012, 16:22

Storia del Fondo femminile - Cap.1

70 anni di attesa della pari dignità

 

E' solo dalla fine degli anni '80, e quindi a quasi 70 anni dalla prima gara in assoluto, che la nazionale femminile ha conquistato la "pari dignità" di quella maschile, recuperando poi in un decennio quel divario di medaglie olimpiche e mondiali che il sesso forte aveva accumulato in quasi tutto un secolo. Prima di allora le fondiste, per quanto riguarda la maglia azzurra, o sono state del tutto ignorate oppure hanno vissuto - male e a gran fatica - per periodi limitati nel tempo e nei mezzi disponibili, per essere poi regolarmente accantonate. La spiegazione è semplice: all'inizio erano troppo poche perché si potesse ipotizzare la formazione di un movimento, in seguito perché non hanno dato i risultati sperati anche quando materiale umano ce n'era, seppur non in abbondanza. E non è che difettassero anche  di qualità: semplicemente nessuno si è mai preoccupato di portarle a galla se non in maniera episodica e senza impegnarsi più di tanto. Non è mai stato attuato neppure un minimo di progetto di programmazione. Solo la costituzione di una Direzione Agonistica a sé stante, affidata al milanese Camillo Onesti, ha finalmente permesso il decollo di un settore, quello femminile appunto, che aveva già la squadra nazionale come massimo riferimento, ma tenuta in sottordine rispetto a quella maschile della quale "intaccava" il budget che la FISI destinava al fondo. Subìte quasi come un'imposizione, insomma, e quindi tollerate più che bene accette le fondiste.

Quella che raccontiamo, dunque, è una storia che la storiografia più o meno ufficiale dello sci di fondo ha ignorato per più di mezzo secolo, per cominciare ad occuparsene soltanto quando sono arrivate le prime medaglie, in coincidenza con l'entrata in scena di Manuela Di Centa e Stefania Belmondo che hanno vinto tutto quello che era possibile vincere. Da sole, la seconda ancor più della prima, hanno conquistato più successi che non l'intero settore maschile.

L'albo d'oro del fondo femminile si apre a Claviere, nel 1922, ben 13 anni dopo il primo campionato maschile, con il primo titolo italiano sulla distanza di 5 km. Mezzofondo lo chiamavano. Aria di scampagnata, di intermezzo fra le gare maschili. Sette concorrenti, che gareggiano in camicetta e gonnella, e vince Elsa Valobra (nella foto) dello Ski Club Torino, precedendo di quasi 3 minuti le contessine Isa e Lea Scheibler dello Sci Club Milano. La seconda si impone a Cortina l'anno successivo, dopo di che il campionato viene sospeso per due anni in quanto si contesta il valore delle gare femminili, non ritenute degne di un titolo. Si riprende nel 1926, con una formula strana che comprende due prove di stile su un percorso in discesa, con curve e passaggi obbligati, e una di mezzofondo che danno luogo ad una classifica combinata per l'assegnazione del titolo. Campionati del genere, con qualche variazione come la combinata fra slalom e mezzofondo, si susseguono fino al 1930, poi non se ne parla per altri vent'anni, almeno a livello nazionale: se si fanno delle gare, sono semplicemente a carattere locale che neppure a titolo di cronaca vengono riportate. Folclore di paese, più che altro. Partito in ritardo di 9 anni, è invece decollato lo sci alpino che esprime elementi di valore: la gardenese Paola Wiesinger nei primi anni '30, e quindi l'indimenticabile abetonese Celina Seghi nell'anteguerra e nell'immediato dopoguerra. Le fondiste si trovano tagliate fuori dall'agonismo federale, non vengono prese in considerazione neppure nel periodo del Fascismo che pure ha dato spazio alle donne nello sport; se ne riparlerà solo negli anni '50. E non tanto per convinzione specifica, ma semplicemente  perché il XVII Congresso della Federazione Internazionale dello Sci, riunito a Oslo, decide di inserire, a titolo sperimentale, nei Giochi invernali del 1952 una gara di fondo femminile sulla distanza di 10 km.  

A questo punto la FISI è costretta ad occuparsene; non può più ignorare l'esistenza del fondo in rosa che comincia a muovere i primi passi con due gare di selezione nazionale. La prima  a Sappada, seguita a 15 giorni di distanza dalla seconda, al Monte Bondone, per iniziativa del giornalista Rolly Marchi e con l'organizzazione del G. S. Battisti. Vincono due quindicenni, Ildegarda Taffra e Fides Romanin, che si alternano nell'ordine di arrivo. La prima, che è di Tarvisio, è una ragazzina minuta che ha messo gli sci da fondo per caso, solo tre giorni prima della gara di Sappada; l'altra, di Forni Avoltri, è una spanna più alta e ha già qualche esperienza in materia. Tecnicamente è un po' scarsa, ma è fortissima, con due braccia abituate a tagliare la legna del bosco. Un debutto positivo e così, per lanciare il fondo, si pensa di organizzare, a margine dei campionati assoluti maschili di Pontedilegno, un criterium femminile sulla distanza di 6 km. Una gara sperimentale, non un campionato con in palio il titolo, che viene però disertata proprio dalle primattrici che sono in partenza per la Svezia, invitate dalla Federazione di quel Paese a partecipare, insieme ad altre atlete di 10 nazioni, ad uno stage di allenamento nel celebre centro di Gosta Olander a Volodalen. Il primo campionato italiano, quindi, ha luogo solo l'anno successivo, dall'8 all'11 febbraio, ad Asiago, e qui Ildegarda Taffra vince il primo dei suoi 6 titoli consecutivi sulla distanza dei 10 km, che resterà tale fino al 1965, per ridursi a 5 km fino al 1976 e ritornare a 10 fino al 1980. E' solo dal 1981 che entrano ufficialmente in calendario le tre specialità individuali dei 5-10-20 km, mentre la staffetta 3x5 km, che dal 1954 si correva per formazioni di Comitato Zonali, viene abolita e destinata alle categorie juniores e aspiranti. Bisognerà aspettare la stagione 2002-2003 per assistere al ritorno del campionato assoluto della specialità.

Contro Ildegarda Taffra, in quei sei anni, non c'è assolutamente niente da fare. Sul gradino più alto del podio sale sempre lei; su quelli più bassi si avvicendano, di volta in volta, Fides Romanin, Anita Parmesani, Erminia Mus, Rosina Vuerich, Amalia Marcolini, Maria Pession, finché, nel 1957, dopo il ritiro della Taffra, arriva il periodo delle ragazze terribili di Limone Piemonte, Elisabetta Astegiano ed Elisabetta Bellone, due cugine, che si danno ripetutamente il cambio in vetta alla classifica. Un ciclo di 5 anni, al quale segue il biennio dell'aostana Lorenzina Guala che, dopo l'intermezzo di Nella Perro di Alagna, apre la strada ai 5 titoli di Anna Maria Samassa di Sappada. Ad eccezione di una sosta per maternità nel 1967, domina fino al 1970. Tranne la Coppa Kurikkala, che riguarda solo i Paesi centroeuropei, dopo le Olimpiadi di Cortina (1956) il fondo femminile esce però dalla grande scena internazionale: per la prima apparizione ai Mondiali bisognerà aspettare quelli di Oslo, del 1982, con la partecipazione di Manuela Di Centa e Maria Canins, e, per le Olimpiadi, Seraievo 1984, dove verrà finalmente schierata la nazionale costituita nel frattempo. Tutte giovanissime, ad eccezione di Guidina Dal Sasso.

Scelte motivate, queste assenze, ma non sempre giustificate. Di certo non dovute a responsabilità delle dirette interessate che ci hanno sempre messo buona volontà, senza però trovare altrettanta disponibilità e programmazione da parte federale. Il materiale umano su cui lavorare era scarso numericamente, ma su qualche atleta di ottime qualità, in questo trentennio, si poteva sicuramente puntare. Ildegarda Taffra in primo luogo, ma anche la Romanin se ci fosse stato qualcuno capace di indirizzarla per il verso giusto non solo nella preparazione specifica ma anche sul piano dell'alimentazione. Tra l'altro, nei confronti della Taffra, ha sempre patito una specie di complesso di inferiorità che la metteva in condizione di essere battuta ancor prima di partire. L'ha spuntata una sola volta in questi sei anni, nella 10 km della Kurikkala del 1956, disputata in Jugoslavia, dopo le Olimpiadi, che avevano già segnato la conclusione della carriera della tarvisiana. Su loro due si sarebbe potuto lavorare bene, ma lo si è fatto solo in maniera sporadica, senza le attenzioni indispensabili.

Purtroppo nei  confronti delle fondiste ci si è sempre mossi in maniera approssimativa, quasi dilettantesca. A differenza dei maschi, che potevano contare sui corpi militari che li stipendiavano o su sci club che se non altro si assumevano le spese e davano qualche premio, le ragazze sono state sempre abbandonate a se stesse, e anche discriminate. E questo avveniva non soltanto per quanto riguarda i materiali (un solo paio di sci da gara e uno da allenamento, più larghi e pesanti, e se capitava di romperli era duro avere il ricambio ...), ma anche sul piano economico, negli scarsi raduni collegiali, quando la Federazione corrispondeva una certa somma sotto la voce di "mancato guadagno". Rimborso spese e soltanto 400 lire al giorno nel 1951, salite poi negli anni a 800 e infine a 1500. La metà o poco più di quello che prendevano i maschi, e per un periodo che, in tutto l'arco dell'anno, andava dalle 3 alle 4 settimane. Come incentivo, non era sicuramente il massimo. Non copriva neppure la perdita di quello che guadagnavano abitualmente, lavorando a casa loro. Quanto alla programmazione, si navigava a vista. Al di là dei pochi raduni, dovevano arrangiarsi nelle loro sedi, confidando nello spirito di collaborazione dei colleghi maschi, che per lo più le snobbavano. Per la solita mentalità maschilista che riteneva le donne inadatte a questa disciplina di fatica e più utili in tutt'altro genere di sport più gratificante. Spiace doverlo dire, ma fino agli anni '80 era questa l'aria che tirava. Anche in FISI, e tranne qualche eccezione che però aveva scarsa voce in capitolo, finché non è intervenuto direttamente il presidente Gattai, magari con qualche forzatura di cui parliamo a parte, nel settore dei personaggi nel quale sviluppiamo l'argomento con riferimenti alla carriera delle atlete più significative e al loro periodo.

Cosa fosse il fondo femminile degli anni '50 lo testimonia questo scritto di Giuliana Molinari (nella foto alla sua prima gara), allora azzurra e attualmente titolare del bar "da Raimondo" a Boscoverde di Tarvisio. "Avevo 18 anni quando ho cominciato a sciare. I miei sci erano un paio di tavolacce da discesa. Ho fatto sette allenamenti con i maschi, guidati dall'olimpionico Elia Vuerich. Avevo un paio di sci scartati da Ildegarda Taffra, che mi aveva regalato, ma non le scarpe che bisognava ordinare a Boscochiesanuova in provincia di Verona, e così ne ho usato un paio che mi aveva prestato Umberto Macor , chiamato "Biri" (aveva il n. 39 e io calzavo il 37 ....). Per fortuna, due ore prima della partenza per Asiago, le scarpe mi sono arrivate per posta e così ho potuto recarmi ai campionati italiani. Eravamo in tre di Tarvisio: io, Ildegarda Taffra e Ione Paoli (nella foto mentre riceve il cambio da Molinari), che purtroppo ci ha lasciati molto giovane. Le prime dieci classificate avrebbero formato la squadra nazionale, e io sono arrivata decima. Da allora hanno cominciato a convocarmi per partecipare a diverse gare, nelle quali ottenevo sempre discreti piazzamenti. Nel giugno 1951abbiamo effettuato un periodo di preparazione ai piedi del Monte Mangart, a scuola di stile, guidate da Alfredo Prucker e Federico De Florian, che chiamavamo l'arcangelo delle nevi per il suo magnifico stile. A  novembre siamo state invece convocate a Corvara per gli allenamenti sulla neve. Di neve però non ce n'era e ci siamo dovute preparare in quota, a 3000 metri. Il nostro maestro era Stefano Sommariva di Moena. Le prime tre, le migliori, erano la Taffra, la Romanin e la Carmela Rodeghiero, che si allenavano per le Olimpiadi di Oslo. Solo loro hanno avuto attrezzatura e vestiario. A tutte le altre, io compresa, pagavano solo l'albergo e il viaggio in treno. Per farmi la tuta ho comperato una stoffa di cotone azzurra e me la sono cucita da sola; la conservo ancora oggi in un baule per ricordo.

Eravamo una squadra povera in confronto degli atleti d'oggi, però eravamo molto affiatate! A me piaceva molto sciolinare gli sci, e infatti andavo sempre ad aiutare il maestro anche se ci si impiastrava tutte con le scioline che si usavano allora. Per questa mia passione mi avevano soprannominata "Sciolina" ed ero responsabile della valigetta. Purtroppo, non essendo sovvenzionate, dopo le Olimpiadi di Cortina la squadra si è sciolta perché la vita ci portava a pensare a cose più realistiche, e così per diversi anni nel fondo femminile c'è stata una pausa. Io ho sempre sciato ancora, per conto mio, e più di una volta ho pensato che se avessi avuto allora questi sci, che pure non sono i migliori, sarei stata una gazzella. Otto anni fa ci siamo ritrovate tutte a Corsara, dove facevamo gli allenamenti collegiali, e abbiamo passato una bellissima serata in compagnia, piena di bei ricordi".

Ricorda Carmela Rigoni (nella foto) che nel 1947 ha sposato Rizzieri Rodeghiero e che faceva parte della squadra femminile: "In vista delle Olimpiadi di Oslo, gli allenamenti sono cominciati solo in autunno. Primo periodo al mare, ad Albenga, con le discesiste Giuliana Minuzzo e Anna Pelissier: preparazione fisica, corsa e nuoto. Poi ancora preparazione a secco nei successivi raduni di Madonna di Campiglio e Camporosso di Tarvisio: Infine allenamento su neve a Fusine e poi a Corvara. Gli allenatori cambiavano sempre. Prima Alfredo Prucker, grande avversario di mio marito nella combinata, poi Federico De Florian. Successivamente è arrivato Andrea Vuerich. Usavamo sci Jarvinen e bastoncini di legno di nocciolo, quelli con cerchio di bambù con intreccio di pelle. Si correva per niente perché premi in denaro non ce n'erano, ma in natura. La volta che mi è andata meglio un servizio di bicchieri".

Neppure Anita Parmesani ha mai vinto niente. Era fra le migliori, ma ogni volta si trovava davanti qualcuna più forte di lei. Prima di tutte le Taffra, poi la Romanin o la Mus; così doveva accontentarsi del secondo o terzo posto. Un'altra che al fondo è arrivata casualmente. Nata a Penia, abitava in Marmolada e lavorava al rifugio. Andava in montagna, le piacevano le scalate e faceva slalom quando le hanno proposto di provare con il fondo. Ha accettato, ma non con una società della Val di Fassa, perché uno di Canazei le aveva detto che non sapeva sciare, e lei se l'è presa a male, ma con l'ATA Battisti di Trento che le dava il materiale e pagava le spese. Abituata al duro lavoro in rifugio, la vita di squadra durante i periodi di ritiro le sembrava quasi una vacanza perché le permetteva di andare in giro. Troppo saltuari, però, questi raduni, perché le consentissero una preparazione costante. Infatti, quando rientrava a casa, non trovava il tempo per allenarsi con una certa regolarità. E' stato anche per questo che, dopo le Olimpiadi di Cortina, le è venuta nausea delle gare e si è trasferita in Sicilia, a fare scuola di sci sull'Etna, approfittando del diploma che la FISI, per meriti sportivi,  aveva concesso agli atleti azzurri.

Appare quindi evidente che in un contesto del genere più di tanto non si potesse fare. Poche atlete, preparazione rabberciata alla meglio, impossibilità di spuntare risultati in campo internazionale. Non si era al punto di adeguarsi al detto di De Coubertin che l'importante non è vincere ma partecipare, ma poco ci mancava. Così, alle Olimpiadi di Oslo, nel 1952, infortunata la Taffra, Fides Romanin si piazza al 18° posto nella 10 km, a 13'03" dalla vincitrice, la finlandese Wideman. Ildegarda, la vigilia della gara in allenamento si infila la punta del bastoncino in un polpaccio. Una brutta ferita, dolorosa, cui si cerca di rimediare con un'iniezione analgesica prima del via. Ma dopo 3-4 km il dolore diventa talmente insopportabile da costringerla al ritiro.

Sul piano dei piazzamenti la situazione non migliora due anni dopo ai Mondiali di Falun, anche perché, per la prima volta, entra in scena l'Unione Sovietica che vince tanto la gara individuale con Ljubov Kozyreva e la staffetta, con l'Italia (Mus, Parmesani, Taffra) al sesto posto. Nella 10 km  Taffra è 28°, Mus 34°, Parmesani 37° e Romanin 39°. Di meglio non si poteva fare considerata la partecipazione di una nuova grande nazione del fondo e l'illimitata partecipazione alle varie gare di concorrenti scandinavi. Non c'era ancora la limitazione ad un massimo di 4 per Paese.

Il salto di qualità non avviene neppure alle Olimpiadi di Cortina, in vista delle quali la squadra nazionale femminile gode di un occhio di riguardo per quanto riguarda la preparazione. La presenza costante di un allenatore, innanzitutto, il bravo Rizzieri Rodeghiero che alle ragazze si dedica con tanta pazienza e passione cercando di migliorarle sul piano fisico e tecnico e trasmettendo loro anche le sue conoscenze in fatto di sciolinatura. "Aveva sposato una fondista, dice Ildegarda Taffra, e conosceva quindi le nostre esigenze. Burbero all'apparenza, era una pasta d'uomo. Sapeva come prenderci, aveva creato un bell'ambiente, cercando di farci superare con l'allegria la tensione delle gare. Non ci trattava come bambine, come era spesso capitato fino ad allora, ci lasciava libertà e rispettava la nostra privacy. Purtroppo a quell'appuntamento sono arrivata in condizioni fisiche precarie, con una brutta influenza che covavo da tempo e che mi ha messo letteralmente a terra, e la mia prestazione ne ha risentito. Del resto, con 4 grandi nazioni e con 4 atlete per squadra, nelle condizioni di allora si gareggiava dal 17° posto in su, e c'era anche qualche centroeuropea alla nostra altezza. Di meglio proprio non si poteva fare. Di qui il 23° posto mio, il 30° di Margherita Bottero, il 31° di Fides Romanin e il 37° di Anita Parmesani. Nella staffetta, Romanin, Bottero e io siamo invece andate male perché, oltre a Finlandia, Unione Sovietica e Svezia, ci hanno superato anche Cecoslovacchia, Polonia e Germania. Quella è stata veramente una batosta inaspettata. L'unica giustificazione che possiamo portare è il tempaccio, neve mista ad acqua, che ha provocato grossi problemi di sciolinatura che hanno condizionato la nostra prestazione".

Dopo queste Olimpiadi  Ildegarda Taffra ha chiuso la carriera, partecipando solo alla sua ultima Kurikkala. Dal 1952 al 1955 le aveva vinte tutte; in questa occasione, ormai demotivata e con la testa rivolta altrove, è stata battuta dalla Romanin. La seconda volta in sei anni dopo la gara del Bondone. La sua uscita di scena ha coinciso con quella della nazionale, almeno per quanto riguarda Mondiali e Olimpiadi, appuntamenti ritenuti al di fuori delle pur legittime aspirazioni delle atlete che si sono succedute nell'albo d'oro dei campionati italiani dei 26 anni successivi. Con la perdurante scarsità di mezzi che fino alla prima metà degli anni '70 ha caratterizzato i bilanci della FISI e limitato all'osso il budget del fondo, non si è avuto il coraggio di investire nel settore femminile, che è stato così lasciato allo sbando, affidato alle cure dei Comitati Zonali.

Come fossero quei tempi li racconta chi li ha vissuti sulla propria pelle, Ulrika Demetz, figlia di un mito del fondo gardenese, quel Vincenzo che ai Mondiali di Chamonix, nel 1937, aveva vinto la medaglia di bronzo nella 50 km dopo essere arrivato quarto nella staffetta l'anno prima alle Olimpiadi di Garmisch. "Abbiamo cominciato a gareggiare a 11-12 anni, io e Claudia Prucker, nipote del combinatista, nelle gare altoatesine. In valle ci guardavano come fossimo mosche bianche. Facevamo tutto da sole. In pullman fino a Bolzano, poi in treno dove c'erano le poche gare nazionali di allora. Fino in Piemonte, a Ghigo di Prali, il paese di quello che sarebbe diventato mio marito, dove tutti gli anni si disputava una NG abbinata giovani. Eravamo bambine e gareggiavamo con ragazze più grandi o con seniores già di una certa età. Avevo 14 anni quando a Tarvisio, agli assoluti, ho corso con Annamaria Samassa che era al suo quarto titolo assoluto e già mamma; della mia generazione facevano parte Giorgina Galletti, Teresa, Sara e  Giacomina Puntel, Bruna e Renata Tinazzi, che avrebbero vinto il titolo o sarebbero salite sul podio degli assoluti negli anni successivi. Ho vinto fra le allieve nel '69, ma poi, passata fra le juniores, si gareggiava tutte insieme e con le più anziane non c'era verso di spuntarla. Sono stata la prima delle juniores nei campionati italiani effettuati a Cogne, Schilpario, Vermiglio e Dobbiaco. Prospettive non ne avevamo, al di là degli Europei, perché la nazionale non c'era più da tempo ed era abortito presto anche il tentativo di mettere in piedi una squadretta di giovani operato dal colonnello Giuseppe Bruno. Vedendo che la FISI si disinteressava, aveva cercato qualche sponsor che si sobbarcasse le spese, trovando un aiuto nella Molteni, grande squadra ciclistica di quei tempi. A prezzo di sacrifici anche personali siamo riuscite a partecipare a tre edizioni dei Campionati Europei: a Gosau, in Austria, nel 1970, a Nesselbang, in Germania, nel 1971, e a Tarvisio nel 1972. Riuscivamo ad allenarci solo prima degli Europei, ci difendevamo con i denti, ma non c'era niente da fare con le straniere: tutte più preparate e attrezzate di noi che potevano contare sul materiale dello sci club e, come allenatori, del carnico Del Bon e del valdostano Vierin, che ci davano una mano per puro spirito di solidarietà. Nel '71con la Galletti, Ester Sforza e Amabile Genuin ho potuto partecipare, insieme ai maschi della nazionale, a tre settimane di raduno a Volodalen. E' stata se non altro un'esperienza interessante ed è lì che ho conosciuto Gigi Ponza, che avrei  poi sposato. Ho corso per tutto il 1973 e parte della stagione successiva,smettendo per gli esami di maturità in ragioneria; poi mi sono messa a lavorare e, nel 1975, mi sono sposata. Avrei forse potuto fare di più, ma questa era la situazione di allora".

Un personaggio straordinario come militare e anche nella vita sportiva il col. Bruno (nella foto) ricordato da Ulrika Demetz. Veterinario degli alpini, che fra il 1940 e il 1943 ha partecipato alle campagne del Fronte Occidentale, del Fronte Greco e del Fronte Russo di Russia, era un appassionato di fondo e aveva rivestito importanti incarichi: dal 1956 al 1964 commissario tecnico del Comitato Alpi Occidentali, dal 1964 al 1972 membro della Commissione nazionale FISI Prove Nordiche. Nel suo libro SCI, frammenti di una storia millenaria, racconta così il suo tentativo di dare vita ad una nazionale femminile. "Il presidente Conci affidò al sottoscritto la responsabilità tecnica del settore, con a fianco un allenatore zonale e alcuni volonterosi dirigenti di società sciistiche. Si ricominciò da zero attraverso una intensa attività di propaganda agonistica nel campo delle giovanissime, convinti come eravamo che solo dopo alcuni anni sarebbe stato possibile trarre fuori da una buona massa di nuove fondiste un nucleo di atlete di pregio. Giungemmo effettivamente alla soglia di quel traguardo, ma non fu possibile superarla a causa della cronica indisponibilità finanziaria che non ci permise mai di mettere in atto ciò che era un fattore preponderante per un miglioramento decisivo delle nostre rappresentanti: la preparazione estiva a secco e la preparazione atletica pre-gare...... Ma mi sia concesso di affermare che se la specialità in questione non è mai affondata del tutto, ciò lo si deve in gran parte alla abnegazione e alla superiore buona volontà delle fondiste degli "anni bui" che accettarono sacrifici enormi, totale mancanza di rimborsi spese, avvilenti e penosi giudizi ufficiali sul loro rendimento agonistico. Furono ragazze meravigliose che, malgrado tutto e contro tutto, seppero mantenere viva la fiamma della passione agonistica  nelle loro vallate e aprire la via ad un ritorno alle prove olimpiche per le fondiste della generazione successiva. Ecco i nomi delle migliori fondiste, suddivise per Comitati FISI di appartenenza, che si fregiarono di titoli nazionali dal 1951 al 1968:

Comitato Alpi Occidentali: Elisabetta Astegiano, Rita Astegiano, Elisabetta Bellone, Rita Bottero, Tina Chapel, Luciana Nigretti, Nella Perro, Iris Peyrot, Silvana Pizzi, Rita Rosso, Silvana Tirozzo, Anna Tosello, Caterina Tosello. Comitato Valdostano: Fiorenza Barrel, Lorenzina Guala, Alina Reboulaz: Comitato Alpi Centrali: Maria Cadringher. Comitato Carnico-Giuliano: Maria Del Fabbro, Giovanna Ortis, Fides Romanin, Anna Maria Samassa, Ildegarda Taffra, Rosina Vicario, sorelle Vuerich.  Comitato Trentino: Cristina Plattner, Luigina Stefani. Una citazione doverosa quanto affettuosa: grazie, mie care figliole di tanti anni fa, per tutto quanto mi avete insegnato in fatto di umiltà e di puro attaccamento allo sport!".

In queste parole del colonnello Bruno e in quelle precedenti di Ulrika Demetz si può riassumere la situazione del fondo femminile di quegli anni. Ne sarebbero passati altri 10 prima che riuscisse a guadagnarsi un po' più di considerazione. Anni in cui si sono perse per strada, o quantomeno non sono state tenute nella giusta considerazione, atlete come Bruna Tinazzi e Sonia Basso, che hanno vinto il titolo italiano per due volte, la stessa Maria Canins, che è stata una delle più grandi atlete della storia dello sport italiano, ma che i tecnici del fondo hanno snobbato prima e rifiutato poi, dopo una fugace apparizione ai Mondiali di Oslo del 1982. Solo Guidina Dal Sasso, che il titolo italiano lo ha vinto nel 1978, è riuscita a farsi strada in seguito: per meriti e risultati propri, ma anche per aver potuto contare sull'appoggio del marito allenatore e tecnico della nazionale. E questo è stato importante, perché le ha dato una motivazione in più, consentendole di gareggiare ad alto livello per almeno una decina d'anni mentre le altre abbandonavano l'attività. Ma se il fondo femminile ha fatto un salto di qualità lo si deve anche ad un caso fortuito, che ha portato ai Mondiali di Oslo Maria Canins e Manuela Di Centa, che i tecnici inizialmente neppure avevano preso in considerazione. Non le ritenevano all'altezza e ci andarono solo a seguito di un compromesso fra chi scrive queste note e il presidente della FISI avv. Gattai. E proprio a Oslo  vennero poste le premesse per la nascita di una campionessa del fondo (la Di Centa) e del ciclismo (la Canins). Ne parliamo nel secondo capitolo. 

 

Il periodo d'oro delle Limonesi

 

In mezzo alle tante ombre di questi 70 anni, nella seconda parte degli anni '50 c'è stato anche un periodo di luce che ha riportato alla ribalta Limone Piemonte, un paese sulla strada del Colle di Tenda. "Terribili" Limonesi chiamarono quel gruppetto di ragazzine, figlie di fondisti, per i tanti successi ottenuti contro avversarie che, sulla carta, godevano i favori del pronostico sia nelle gare individuali che in quelle di squadra. Margherita Bottero, Elisabetta Bellone ed Elisabetta Astegiano cominciarono a dominare le gare subito dopo le Olimpiadi di Cortina, quando uscì di scena Ildegarda Taffra, che fino a quel momento aveva vinto tutto quello che c'era da vincere in campo nazionale, oltre che a imporsi ripetutamente anche nella Kurikkala. Per 5 anni, dal 1957 al 1961, monopolizzarono letteralmente i campionati assoluti sia nella gara individuale di 10 km che nella staffetta in rappresentanza del Comitato Alpi Occidentali. Nella staffetta, anzi, cominciarono già a vincere nel 1956, battendo la formazione carnica, formata da tre azzurre (Romanin, Vuerich, Taffra) che veniva data logicamente favorita. Le due Elisabette, in particolare, si avvicendarono sui due gradini più alti del podio, scambiandosi ripetutamente il titolo. Non c'erano problemi: essendo cugine, restava pur sempre in famiglia. Ragazze meravigliose, dal cuore grande come una casa, che in pochi mesi hanno imparato a sciare e cominciato a vincere una sequela di titoli. Elisabetta Bellone (a sinistra), classe 1937, ha iniziato nel 1956, sulla scia dell'entusiasmo indotto dalle Olimpiadi di Cortina. Qualche garetta zonale e agli assoluti del Sestriere arriva subito il titolo della staffetta, conquistato con Margherita Bottero e Anna Tosello (foto a destra). Ad iniziarle al fondo e ad accompagnarle alle prime gare era stato un appassionato, certo Beppe Cavalot, mentre i primi rudimenti tecnici li aveva impartiti il fidanzato della Bellone, Andrea Dalmasso, poi diventato suo marito. Era un prima categoria delle Fiamme Oro, faceva parte della nazionale, era considerato il terzo dopo Federico De Florian e Ottavio Compagnoni e si divideva fra fondo, podismo (aveva vinto il titolo di 3° categoria dei 5.000 metri) e corsa in montagna, e con la fidanzata aveva giocato d'azzardo. Faceva la cameriera, non aveva mai messo gli sci né praticato altri sport; era quindi impensabile che in meno di un anno potesse arrivare al titolo. Ha cominciato a crederci solo dopo che a Chiusa Pesio, in una gara impegnativa, ha battuto la cugina Astegiano. Lo sci club era povero e non poteva permettersi né troppe trasferte né tantomeno allenatori. Ci pensavano allora, nei momenti di libertà, giovanotti come Andrea Dalmasso, quanto tornavano a casa fra una gara e l'altra e durante l'estate, con i primi allenamento presciistici; altrimenti si arrangiavano da sole, senza maestri. La prima a entrare in nazionale è stata la Bottero, che aveva vinto il titolo juniores. Erano poche in squadra: Taffra, Vicario, Romanin e lei. Bellone e Astegiano arrivarono l'anno dopo. Quando vennero chiamate in nazionale e affidate al "Rode", erano già campionesse italiane. I raduni erano in estate: le portavano anche al mare e poi, in settembre, allo Stelvio e, in stagione, in varie località a seconda degli anni.  

Sulla stessa falsariga l'esordio di Elisabetta Astegiano (a sinistra), che però è cresciuta con l'esempio del padre, che era un buon fondista che partecipava alla Valligiani e che ha acconsentito che si improvvisasse fondista solo dopo averle ricordato che lui non era mai arrivato oltre il secondo posto. Se proprio voleva provarci, che lo facesse seriamente. Aveva 18 anni e doveva partire con lui, diretta in Francia per lavorare. Quando le si è aperta questa possibilità di  fare fondo ad alto livello, ha rinunciato e ha cominciato ad allenarsi. Ginnastica con un istruttore tedesco, una signora che a Limone faceva l'interprete. Subito nel '56 il titolo della staffetta, con il miglior tempo di frazione, poi l'anno dopo il primo titolo individuale. A fine anno, mentre si preparava per i Mondiali  di Lahti, un brutto incidente l'ha messa fuori gioco per diversi mesi. Era in allenamento a Macugnaga ed è volata malamente. Avrebbe ripreso solo con gli allenamenti estivi del 1958, bloccata in seguito da una distorsione riportata durante un allenamento a Garmisch, dovuta al materiale che passava la Federazione. "Due paia di sci, dice la Astegiano. Uno per allenamento, troppo duro, che non molleggiava sufficientemente per le ragazze, e uno da gara, più leggero. Se lo rompevi, dovevi arrangiarti con l'altro. Ricambi non ce n'erano. Ed è proprio quello che mi è capitato di rompere lo sci da gara e di dover usare solo quelli da allenamento;  l'infortunio è stato la logica conseguenza di quegli sci che non erano adatti ad una donna che non ha la stessa forza di spinta di un uomo. Non solo troppo pesanti, ma anche rigidi come tavole, non flettevano, mancavano di torsione: a rimetterci erano le articolazioni. Ed è stato così che mi sono fatta male".

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