La sala della Fondazione Filarmonica di Trento si è scoperta improvvisamente troppo piccola per contenere i tanti presenti all’evento per ricordare la vittoria della staffetta maschile dello sci di fondo alle Olimpiadi di Torino 2006, inserito nell’ambito del Festival dello Sport, a Trento. La magica giornata di Pragelato, che ha visto salire in cima al podio Fulvio Valbusa, Giorgio Di Centa, Pietro Piller Cottrer e Christian Zorzi.
Sarà il clima olimpico che si respira forte in Trentino, ma soprattutto la voglia di rivivere le emozioni di quel giorno, quando i quattro campioni azzurri scrissero una pagina storica dello sport italiano, ma l’emozione si percepisce forte nella sala durante la chiacchierata con i quattro azzurri.
Accolti con il video contenente gli highlights di quel giorno, che ha fatto scattare il naturale applauso dei presenti, sono saliti sul palco Valbusa, Piller Cottrer e Zorzi, mentre Di Centa era assente perché impegnato a Oberhof in alcuni test sui materiali in vista dell’inverno. Ad accompagnarli c’era Sepp Chenetti, l’allenatore di quella squadra azzurra, ancora oggi stimatissimo dai suoi ex atleti.
«È facile prendere decisioni quando hai talenti del genere – ha esordito Chenetti durante la chiacchierata sul palco – ma devi essere bravo a gestirli e mantenere la neutralità. Quella vittoria però non fu una sorpresa, perché in quel ciclo olimpico avevamo fatto 16 staffette, ottenendo 13 podi con 5 vittorie. Abbiamo concretizzato quanto era già nell’aria, visto che avevamo vinto già in Val di Fiemme poco prima. C’era una bella intesa anche con staff e preparatori, ed inoltre avevo tanti altri atleti di qualità, che arrivavano tra i primi venti ed erano rimasti fuori dal quartetto».

Chenetti, che i suoi atleti chiamano tutt’ora mister – “perché ha un’aura particolare” ha sottolineato Valbusa – ha ammesso che con la squadra avevano ipotizzato vari scenari: «Potevamo pensare di perdere qualcosa in classico dove gli scandinavi erano fortissimi, poi in terza avevamo il sarto (Pietro Piller Cottrer, ndr) che ricuciva sempre il distacco e in Val di Fiemme aveva recuperato oltre 40”. Poi all’ultima frazione c’era lo sprinter per giocarcela in volata. Mai avremmo immaginato di vincerla per distacco».
Parola quindi al primo frazionista di quel giorno, Fulvio Valbusa: «Sono ricordi tatuati sulla pelle. Già il giorno prima ci credevamo, sentivamo qualcosa girare nell’aria. Ovviamente non era facile, perché in staffetta deve essere tutto perfetto e si gareggia in quattro con altrettanti paia di sci. Gli skimen si ammazzarono di lavoro per darci i materiali giusti. Sentivamo però di poter vincere, avevamo l’esperienza per gestire certe emozioni, anche la forte pressione di un Mondiale in Italia. Anzi, eravamo tanto motivati, perché doveva essere la rivincita dei norvegesi nei nostri confronti per Lillehammer. C’era tensione ma quella bella che dà la carica. Eravamo più di una squadra, ma una famiglia».
Valbusa ha svelato proprio un episodio avvenuto nel pregara. «Il mio skiman, Alessandro Leso, mi diede gli sci dicendomi di non sentirli prima di partire perché non avevano grip. Come i nostri tecnici avevano previsto, dopo un 1,5 km si sono scaldati e andavano, tenevo bene ed ero veloce. Fidarsi delle persone attorno è fondamentale, soprattutto degli skimen che lavorano giorno e notte».
Assente Di Centa, ha preso la parola Pietro Piller Cottrer, la cui azione in quella terza frazione è tutt’ora scolpita nella memoria comune degli appassionati.
«Si, quel giorno anziché fare il sarto e cucire, feci lo strappo. Per una volta nella vita, quelli delle due frazioni in classico erano riusciti a fare qualcosa di buono (ride, ndr). Non credo però che la mia frazione fu quella decisiva, perché lo furono tutte per il risultato complessivo della gara. Alla fine, quel vantaggio non era nemmeno così clamoroso. Nessuno si sarebbe aspettato che poi Zorzi avrebbe aumentato il suo vantaggio».

Il sappadino con indosso la camicia del CS Carabinieri ha quindi parlato del suo memorabile attacco in salita. «Quell’azione nasce da parecchi anni prima e dal lavoro di tutto il nostro settore tecnico. Pragelato è a 1600 metri, una quota un po’ particolare. Negli anni precedenti, nelle competizioni in quota ci eravamo resi conto che facevamo grande fatica con la respirazione e muscolarmente. Forti di questa esperienza, tutti i nostri raduni vennero organizzati in quota, spesso sopra i 2500 metri, gran parte allo Stelvio, uno a Park City, negli Stati in estate, che fu meraviglioso e portiamo tutti ancora nel cuore. In quel modo ci siamo preparati al meglio per arrivare pronti a Pragelato. Ecco, grazie a questo ho avuto la forza di fare quell’azione, quello scatto su una salita di cui avevamo rispetto. La feci tutta in un minuto e mezzo, era interminabile. Ovviamente, essendomi trovato subito in gruppo con gli altri, non avevo bisogno di partire forte per ricucire, così nel primo giro ho risparmiato energie per dare tutto nel secondo. E ha funzionato».
La palla è quindi passata a Christian Zorzi, eroe dell’ultima frazione. «Ecco, bravo Pietro che hai ricordato che il margine non era così ampio (ride, ndr). Nei giorni precedenti ci eravamo detti che se avessi ricevuto il cambio con gli altri avrei gestito la gara, se mi avesse dato 20” di margine invece avrei cercato di andare via da solo. Lui invece ha fatto la via di mezzo (ride, ndr). Ero lì sulla linea di partenza ad aspettare il cambio e in quei due minuti ero molto nervoso, gestire la pressione non è facile. Quattro anni prima ero partito con Alsgaard e persi l’oro dopo che il team aveva lavorato bene. Essendo in ultima ti dispiace nei confronti dei compagni. Così a Pragelato ero spaventato, non sapevo cosa fare e chiesi consiglio al mio skiman di allora, Giorgio Vanzetta, uno degli eroi di Lillehammer. Lui mi consigliò di partire e fare il mio nel primo giro e vedere come sarebbe andata».
E così fece: «Andai per la mia strada e non sapevo nemmeno dove fossero gli altri, anche perché non si sentiva nulla, su quella salita c’era tantissima passione. Ho però realizzato che stavo facendo un’ottima prestazione, mi sentivo bene ed è andata benissimo, così ho tirato fino alla fine. Solo negli ultimi metri sono tornato sulla terra, ho aperto gli occhi e ho provato a vivere questa esperienza che per me era diversa. Vincere una sprint è qualcosa di più adrenalinico».

Sul maxi schermo è stato quindi mandato un video messaggio del dt azzurro di allora, Marco Albarello, che ha elogiato i quattro staffettisti azzurri. Un momento accolto con grande piacere e anche un po’ di emozione dagli ex atleti.
Valbusa è poi tornato sul finale di gara, su come aveva vissuto l’ultima frazione di Zorzi. «C’era molta tensione. A Oberstdorf un anno prima, dopo aver vinto tanto nel Mondiale, arrivammo all’ultimo cambio nel gruppo dei tre di testa con quasi un minuto sui quarti. Non potevamo perdere la medaglia, tanto che io e Pietro eravamo già in parterre col pettorale addosso. Invece lui scoppiò, perché Zorzi era così pazzo anche in pista. Per quello io e Pietro nel parterre di Torino non festeggiammo fino alla fine».
Piller Cottrer è quindi tornato sulla festa post gara, in particolare quel bacio al podio che i quattro azzurri diedero prima di salirvi. «Un sentimento che ci venne dal cuore, spontaneo. Un gesto che rappresentava il senso di appartenenza che abbiamo sempre sentito e i tifosi lo hanno recepito. È difficile trovare delle cose più belle di questa. Il grandissimo affetto ricevuto in quello stadio lo porteremo sempre nel cuore».
Quattro campioni, quattro atleti diversi nella tecnica e anche nel carattere, come ricorda Zorzi, sicuramente il più eccentrico del gruppo: «Ho sempre cercato di trasmettere alla gente che anche uno sport di fatica è divertente, perché lo sport deve mettere il sorriso non solo quando si vince. Io ero un po’ il burlone del gruppo, a volte anche esagerato ma fa parte del mio essere. Ho cercato di vivere lo sport sempre con il sorriso e trascinando in questo i miei compagni. Eravamo tanto diversi e la bravura di Sepp (Chenetti, ndr) è stata quella di saper esaltare le nostre caratteristiche, tirandone fuori il meglio anche nel gruppo».

